lunedì 13 febbraio 2012

World Press Photo 2012, la primavera araba e la pietà di Michelangelo

Un commento sul vincitore del World Press Photo 2012. Molti gli italiani premiati ma la foto dell'anno è di Samuel Aranda sulla 'primavera araba'.
Una pietas michelangiolesca moderna in chiave musulmana, un manifesto dell'amore e della compassione che sopravvivono alla rabbia.
Ma è tutto qui? O si tratta di una visione e una lettura puramente occidentalizzata? Fino a che punto stiamo usando una foto per illustrare il nostro sistema di convinzioni?
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Sono stati pubblicati i nomi dei vincitori del World Press Photo 2012 e anche quest'anno sono ben sette gli italiani premiati. Il panorama italiano dei reportagisti continua a essere riconosciuto e apprezzato, come d'altronde è avvenuto anche lo scorso fruttuoso anno.
Alcuni nomi noti, altri meno famosi, complimenti a Paolo Pellegrin, Alex Majoli, Pietro Paolini, Francesco Zizola, Eduardo Castaldo, Emiliano Larizza, Simona Ghizzoni.

Rendiamo però merito al vincitore del World Press Photo of the Year, Samuel Aranda.
Reporter spagnolo della Catalogna di 33 anni che affronta il tema più importante del 2011, la primavera araba.

Samuel Aranda

Ci troviamo in Yemen, in una moschea della capitale San'a' divenuta rifugio per i feriti dopo gli scontri che hanno scosso tutto il nord Africa e medio oriente.
Non riusciamo a vedere il volto della donna, il niqab le risparmia solo due fessure per gli occhi, il corpo nudo presumibilmente del figlio o marito è riverso su di lei, le braccia lo stringono mentre lui si flette in una posa michelangiolesca. E' quella delicatezza che più di ogni altra fragorosa fotografia racconta il dramma della lotta per la libertà dai regimi.

Un'immagine fortissima, contro la quale scontriamo e che si svela nei dettagli ad una seconda lettura. I guanti bianchi di lei in contrasto col nero del niqab, le scritte sul corpo di lui. Non sappiamo se ha sofferto torture o se sopravviverà, non ci è dato saperlo. Il volto di lui è protetto, nascosto, quello di lei è ugualmente nascosto. Un'immagine ricca di simboli, che nel plasticismo delle pose descrive quello che mille parole non potrebbero descrivere meglio, la compassione.
Samuel Aranda riesce a imprimere in una sola immagine una condizione universale, con semplicità.
Quella della giuria del WPP è stata una scelta positiva, mostrare il lato umano della guerra, l'amore e la misericordia che sopravvivono alla rabbia.

Dalla Tunisia passando all'Egitto (ne abbiamo parlato in quella protesta sul ponte in Egitto) e poi alla più sanguinosa guerra in Libia, fino al lontano Yemen, al quale viene doverosamente rivolta dal fotografo un'attenzione che non ha trovato nelle cronache dei giornali. E' una primavera lunga perché mentre scrivo è in Siria che una delle peggiori rivolte sta perpetuando un massacro sotto i colpi disperati del regime di Assad e le divisioni della comunità internazionale.

Renata Ferri faceva parte della giuria e ci spiega sul blog de Il Post le motivazioni della scelta in un'interessante discorso:
"Questa immagine, alla fine, la esprime con una formalità classica a cui è difficile non dare retta. Ci sembra in qualche modo più completa delle rivolte egiziane, tunisine e libiche, mostra lo sconosciuto Yemen, dove tutto sembra succedere per poi sprofondare di nuovo in quel confine del mondo così remoto da essere dimenticato.
È un’immagine che parla delle donne, di quelle islamiche, di ruoli e di icone, tra nijab e guanti decorati dei fiori. È una moderna Madonna che tiene tra le braccia il suo Cristo. La posizione è identica al capolavoro Vaticano di Michelangelo. La testa del Cristo poggiata sul braccio destro e il viso, in questo caso della “madre”, rivolto in basso, colmo di tristezza."

Fin qui tutto fila liscio...
Avrei potuto terminare qui, ma c'è un problema di fondo. Scomodiamo Michelangelo.

Pietà di Michelangelo - Basilica di San Pietro a Roma

Jorg Colberg sul suo blog affronta il tema da un punto di vista diverso. Mi è piaciuto e mi ha fatto riflettere perché analizza l'immagine discutendo dell'approccio culturale.
Il problema consiste nel fatto che la fotografia è scattata da un fotoreporter occidentale, selezionata da una giuria internazionale occidentale, apprezzata e diffusa in tutto il mondo da giornali occidentali per un pubblico principalmente occidentale, ma il punto critico è la lettura che noi diamo, che è, guarda un po', profondamente e inesorabilmente occidentale.

Come la foto del soldato ferito in Afghanistan di Tim Hetherington (vincitore anche lui del World Prestto Photo e purtroppo ucciso lo scorso anno in uno scontro a fuoco in Libia) non assistiamo ad un racconto degli eventi che descrivono la guerra o la vita dei soldati al fronte, non si vedono spari, edifici distrutti, non sangue che scorre, morti sulle strade. La foto di Aranda come quella di Hetherington è un'estrapolazione dal contesto, in cui la guerra, e il suo racconto, rimane sospinta fuori dalla porta e raccontata con pochi elementi simbolici. Interpretazioni personali del reporter, forse e forse inevitabile, straordinarie dal punto di vista fotografico e meritevoli di tutte le onorificenze che hanno ottenuto, ma anche costruzioni di un occhio occidentale.

Tim Hetherington - soldato in un  bunker in Afghanistan

Il raffinato plasticismo dell'uomo riverso nelle braccia della donna ad un osservatore occidentale fa subito venire in mente la rappresentazione scultorea di Michelangelo, è un rimando a qualcosa che conosciamo già, quasi una citazione, più o meno forzata, forse inconsapevole ma ineludibile per un occidentale.
Questo è il suo grande potere evocativo perché recupera un patrimonio di conoscenza e simboli che fa parte della nostra cultura, ma è anche il suo limite di narrazione perché impedisce di aderire alla realtà dei fatti, contaminandola con un lente che la altera e che quasi ci impedisce di analizzarla col sistema culturale da cui è stata estratta.
Il punto è, come scrive Jorg Coldberg, di educare il lettore e l'osservatore. L'immagine di Samuel Aranda è facile da vedere, il velo, la posa, l'espressione della sofferenza umana, tutto lo specifico immaginario occidentale, ma è molto difficile sradicare tutto questo e scoprire cosa stiamo veramente osservando.

Che cosa raffigura l'immagine? Che cosa ci racconta del nostro background culturale e politico? Fino a che punto noi operiamo per vederla in questo modo? In altre parole, fino a che punto stiamo usando una foto per illustrare il nostro sistema di convinzioni?

Si tratta dunque di guardare ponendosi le giuste domande, le risposte poi arriveranno.
E ci spiegheremo perché mandiamo soldati a combattere guerre lontanissime in paesi stranieri senza ben sapere cosa sta realmente succedendo laggiù, a dispetto di tutti i fotografi che cercando di raccontarcelo e senza chiederci realmente se hanno senso perché leggiamo con un'unica lente culturale.


Alcune delle altre bellissime fotografie premiate toccano i temi caldi dell'anno passato, dalla caduta di Mubarak al culto del dittatore della Corea del Nord, dalla ricostruzione di Haiti al terremoto in Giappone.

"La caduta di Mubarak” di Alex Majoli

"Terremoto in Giappone" di Lars Lindqvist

"Tonnara di Carloforte" di Francesco Zizola

“Corea del Nord” di Damir Sagolj

“Radio Haiti” di Paolo Woods

Queste sopra sono le foto che ho scelto, ma sono numerose e tutte di straordinario livello, merita guardarle tutte su www.worldpressphoto.org

2 commenti:

  1. Il punto chiave è che un reportage può anche dimenticare certi schemi perché deve prima di tutto puntare alla racconto della realtà, a veicolare la realtà e non il fotografo o l'idea di questo sulla realtà. Se poi ci si mette che un simbolo universale dell'arte, rinascimentale e cristiano in questo caso, diventa simbolo per raccontare una rivolta musulmana tutto si ingarbuglia.

    Si tende (e con la tecnologia ci si riesce anche) a curare fin troppo l'estetica, mettendo da parte il racconto. Se si riesce ad allineare entrambi gli obiettivi è il massimo, ma quello dell'estetica in un lavoro reportagistico non può e non deve prevalere.

    Secondo me non è nemmeno un problema del fotografo che è stato bravissimo in una situazione del genere ad aver tirato fuori uno scatto così straordinario. Forse la giuria ad innalzare questo scatto a foto simbolo del 2011.

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  2. Tramite questo articolo del New York Times possiamo finalmente scoprire ulteriori dettagli sulla vicenda che ruota intorno alla foto.

    http://lens.blogs.nytimes.com/2012/02/21/in-sana-an-emotional-encounter/

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