giovedì 9 dicembre 2010

Kevin Carter, quando la fotografia pesa come un macigno

Chi è Kevin Carter?
Inizia come fotografo di sport per poi cominciare a lavorare Johannesburg per raccontare l'apartheid.

Mi ha molto colpito la sua storia, che è la storia di una vita, perché fa riflettere sul potere di quello che vediamo e di quanto in profondità scava nel nostro animo. E più l'animo è puro e onesto, più la ferita si immerge nel profondo.

Stiamo parlando di fotogiornalismo, quello vero, crudo e di etica nella fotografia, del ritratto di un mondo terribile ma che qualcuno deve fare.
Stavolta non mi scaglierò contro la durezza delle immagini per difenderle dalla malattia dilagante dell'indifferenza, stavolta vi beccate tutta la durezza di Kevin perché nelle sue foto c'è la sua vita e i motivi della sua esistenza.


Alcune sue fotografie ricordano quelle di James Nachtwey, che ha collaborato col suo gruppo, quel Bang Bang Club fondato insieme a Greg Marinovich, Ken Oosterbroek, e João Silva, e come loro ha riportato dai posti peggiori del mondo le immagini che tutti non vorremmo vedere. Come Nachtwey ci mostra senza filtri la parte rovescia della medaglia, ogni volta sfiorando quello che pensiamo (e speriamo) sia il fondo che può raggiungere l'uomo.
Non si tratta qui di toccare il cuore, urtare, si tratta di spingerci con forza a vedere a tutti i costi la morte, la tragedia, la violenza, la pura cattiveria e la pura idiozia dell'uomo.

Partiamo dai suoi timori e dalle sue motivazioni.
"Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini... così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non fu necessariamente un male."

Carter si spostò nel Sudan per rendere consapevole il mondo di quanto stava accadendo lì e come la fame e le malattie stavano eliminando un paese nel quale un governo stava armando la sua gente per sfamarla.
Scattò questa foto.

"Sudan vulture" di Kevin Carter, premio Pulitzer
Il 26 marzo 1993, il New York Times pubblica questa fotografia di Carter. Una bambina di circa sei anni cade per la stanchezza dopo un lungo cammino in cerca di un rifugio. La ragazza, tisica e gonfia per la mancanza di nutrizione si accartoccia al suolo senza forze, mentre sullo sfondo un avvoltoio rimane in attesa della sua imminente morte. L'immagine fece il giro del mondo. Carter vinse il Pulitzer.

Si racconta che Carter desse un profondo peso a quella foto, non riusciva a staccarsene e finì per odiarla.
E' qualcosa di così diretto che siamo costretti a costruire un qualche filtro psicologico per difenderci. Arriva talmente in profondità, perché non abbiamo armi per affrontarla e respingerla. E' la rappresentazione estrema del male.

Anche il foto-reporter di fronte a una tale scena è senza armi e finisce per infilarsi da solo in una trappola, perché deve raccontare quello che vede, è il suo ruolo, e così diventa un "turista" dell'immagine (scusate la durezza del termine), costretto a essere un po' meno umano e un po' più osservatore. Un'umanità che si perde ma una perdita con delle conseguenze.

Poche settimane dopo aver scattato quella foto, Carter andò in un parco vicino al luogo dove nacque, dove ha giocato con i suoi amici, ignari di quello che le tribù nere della periferia stavano patendo. Proprio lì, ascoltando la sua musica, accanto a un laghetto circondato da verdi alberi, ha cominciato ad inalare monossido di carbonio da un tubo collegato allo scarico dell'auto.
Così si tolse la vita.
Prima di morire scrive un'ultima frase, che fa solo intuire il peso di quanto ha visto e vissuto.
"Sono perseguitato dai ricordi dei massacri e dei corpi".


Kevin Carter
Qualche interessante fonte di informazione:
Blog l'atelier è un luna park di Conchita De Palma.
Kevin Carter, el fotògrafo de Africa.

2 commenti:

  1. Non conoscevo la storia di questo fotografo, ma mi ha colpita molto. E' emblematico il fatto che non sia riuscito a sopravvivere di fronte alla verità di cui si è fatto lui stesso portatore e, ovviamente, anche molto triste...

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  2. La bambina è un maschio ed è sopravvissuta. E' morta 4 anni dopo di febbre. El Mundo ha cercato e trovato la famiglia.
    "Come mai non hai aiutato la bambina" chiede il giornalista che l'azione più pericolosa che compie tutti i giorni è attraversare la strada per andare in redazione e che non ha speso una parola sul Sudan durante tutti i mesi/anni precedenti alla carestia.
    "Oh, non l'ha aiutata, cattivo" dice l'internettaro che combatte la fame a "mi piace".
    clap clap

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