Cattedrale di San Vito, 1924-28, Josek Sudek |
Durante la prima guerra mondiale perse il braccio destro, ma questo non gli impedì di proseguire la sua attività, anche se gliela rese decisamente più difficoltosa e lenta.
"C'è sempre la musica", era solito affermare, anche nei momenti peggiori. Immerso nel suo mondo e tra i suoi amici artisti più stretti come il musicista Janáček.
Era solito aggirarsi con un vecchio e ingombrante apparecchio per i giardini e i ponti di Praga e attendere anche per anni, il momento giusto per scattare le sue fotografie.
Nasce così la serie all'interno della cattedrale di San Vito, i bagliori che disegnano architetture con la luce, le ampie zone scure e il silenzio di uno spazio non finito. Era ancora in costruzione la cattedrale, da ben sei secoli e si racconta che Sudek aspettasse il giorno in cui sapeva che la luce entrava nella direzione giusta e poco prima di scattare, correva in sù e giù per le navate alzando la polvere e creando quel pulviscolo per intrappolare la luce.. Si scorge una spiritualità della visione, come una bellezza colta con l'estasi dell'osservare.
Schivo e lontano dai fatti che sconvolsero la Cecoslovacchia, si ritira nel suo studio e mentre fuori si sentiva ovunque l'odore della guerra e l'invasione nazista, il suo rifugio era l'unico rimasto per Sudek.
Le immagini si fanno più intime, comincia a ritrarre la frutta, le foglie e altri oggetti comuni e in maniera quasi maniacale ritrae la luce che entra dalla finestra. Gli alberi, i suoi studi sulle foreste nei dintorni di Praga e le nature morte, con le luci e le ombre intense ed enigmatiche.
Ed è proprio nello spazio familiare per eccellenza, il suo studio, che realizza immagini piene di incanto, pennellate realistiche di un romanzo di altri tempi, eppure così universale.
Mentre Eugene Atget fotografa la realtà sociale e impone uno stile di documentazione della sua Parigi, Sudek cattura l'esperienza più soggettiva della città, dettagli architettonici, viste dall'alto e una determinata attenzione su enigmatiche ombre, anzi tutto il suo lavoro è concentrato sulle ombre, per lasciar poi esplodere le luci, come insegnava il suo maestro.
"la finestra di mio studio" e "Praga", Josek Sudek |
Queste fotografie richiedono una visione e una lettura lenta, oltre ad una certa predisposizione e apertura d'animo.
Il microcosmo della sua abitazione, dei luoghi che frequenta, diventano un grande racconto, un racconto di sè stesso e del suo amore per la vita, che scorre lontano dalle guerre e dalle atrocità dell'occupazione di Hitler.
Il gioco del bianco e nero ingiallito, tutte le tecniche di stampa che sperimenta, le enormi panoramiche, sono così difficili da restituire sul monitor di un computer, perché possiedono una densità e una morbidezza tattile che solo la carta è in grado di trasmettere.
Un fotografo poco conosciuto, forse anche martoriato dalla velocità e dal clamore della fotografia contemporanea, ma che invito a riscoprire e conoscere.
"Acquazzone d'estate nel giardino incantato", 1954-59, Josek Sudek |
Consiglio la lettura di un testo critico di Charles Sawyer del 1980.
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