La fotografia non è un problema, la fotografia è un enigma,
perché il problema ha una soluzione e l’enigma è un problema
che non ha soluzione
giovedì 9 settembre 2010
Non c'è ma si vede
Come tutti sappiamo, le alluvioni nel Pakistan hanno prodotto una marea di sfollati e l'emergenza viene definita di entità superiore a quella del terremoto del 2004 nell'oceano indiano.
Per scuotere un'opinione pubblica un po' addormentata, orde di fotografi e numerosi quotidiani stanno alzando il livello di drammaticità degli scatti inviati e pubblicati.
Un caso secondo me è la foto che figura in prima pagina sul Guardian di domenica 5 settembre, ormai divenuta un simbolo della tragedia.
Due bambini sopravvissuti alle devastazioni, riversi su un telo e completamente ricoperti di mosche.
La fotografia, seppure tecnicamente ineccepibile, con colori e composizione perfetta, porta con sè un forte impatto che non lascia certo insensibili. Non si può guardare senza rimanere urtati, mi sento anche in colpa ad analizzarla tecnicamente, ma è su due aspetti che vorrei porre l'attenzione.
Il primo, più ovvio e dibattuto ormai da generazioni, è la domanda che si pone chiunque veda per la prima volta una foto del genere. Tutti noi avremmo cercato di togliere quelle mosche e certo l'inquadratura del freddo registratore della macchina fotografica sarebbe stato l'ultimo dei pensieri. Tuttavia, senza false ipocrisie, si tratta di un foto-reporter, per la cronaca Mohammad Sajjad (che comunque ha dichiarato di aver tentato invano di allontanare le mosche), il suo mestiere è dunque raccontare e forse la sua inquadratura vale più di cento gesti per cacciare quelle mosche, forse.
Ma non voglio impantanarmi in un dibattito spinoso, era solo uno spunto che mi conduce alla seconda riflessione, che affronta più razionalmente il tema della comunicazione.
Quali sono le conseguenze dello scioccare per ottenere ascolto?
Ricordiamo tutti il proverbio del pastore che per scherzo gridava "al lupo, al lupo!" e che poi quando il lupo arriva veramente nessuno l'ascolta più. Nello stesso modo, questo alzare la voce finisce per renderci forse un po' più abituati e progressivamente sempre meno coinvolti. Non voglio parlare di indifferenza ma di una certa abitudine al dramma, questo sì.
La trovata non è certo originale e la riflessione nemmeno. Ma ogni volta mi stupisco, forse sempre di meno, nel vedere un'immagine spogliata del suo ruolo e usata. Perchè è di questo che si tratta, di prendere un soggetto dal forte potenziale empatico e sfruttarlo per comunicazione, non per raccontare veramente una storia, perché quella finisce troppo in secondo piano.
La foto rimane impressa per il suo dramma, pur sempre per un tempo limitato perché sostituita da un'altra tragedia, ma il dramma ha un'inizio e uno svolgimento e il fotogramma di questo film, può essere significativo ma rimane pur sempre un fotogramma, oserei dire cinicamente"promozionale".
E' per questo che la fotografia io la riporto appannata, perché a volte forse è meglio proteggersi, per proteggere la realtà.
Non c'è ma si vede, perché anche se non la mostro nel suo tremendo iperrealismo, ve la descrivo e ve ne faccio partecipi per non rischiare che la lettura, della foto, sia troppo immediata e conclusiva.
Immaginatela, forse magari gli occhi lasceranno più spazio alla storia.
"... scampati alle inondazioni che hanno infuriato sul Pakistan per più di un mese, come altri milioni di sfollati. Vengono dal circondario di Peshawar, si sono accampati a Azakhel, affiancano le auto che passano di lì e chiedono qualcosa. Questa famiglia, la madre Fatima, il padre Aslam Khan e i loro otto figli – i due in primo piano nella foto, Reza e Mahmoud, hanno due anni e sono gemelli – non sono nemmeno pachistani, ma profughi afgani, dunque scampati una volta alla disgrazia degli uomini e un'altra a quella della natura, e stanno ancora più indietro nella fila lunghissima degli infelici che tendono le mani. Ora stanno morendo di fame. "E’ un mese che non hanno latte”, dice la madre. Scrive la giornalista: “Quando l’abbiamo trovato, Reza era ancora attaccato allo stesso biberon. Era ancora vuoto”. Prima Aslam viveva andando in giro in bicicletta a vendere pollame. Ora, attorno e dentro una tenda di fortuna, senza nessuna organizzazione umanitaria che gestisca il piccolo accampamento, senza acqua né soccorso sanitario, umani e altri animali sopravvivono nella sporcizia comune e le mosche la fanno da padrone. Per cacciarle, Fatima ha solo un ventaglio di foglie di bambù. E ha poco tempo e forze da spendere a far guerra alle mosche." (di Adriano Sofri su Repubblica)
Per chi invece vuole vedere la foto "in chiaro" e leggere l'interessante articolo del Guardian.
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